Testimonianza
Mi chiedi, caro Ballarè, di ricordare quei primi anni ’70 in cui tu apristi una Galleria nelle stanze di Palazzo Premoli in via XX Settembre a Bergamo. Io allora ero un giovane studente di Mario De Micheli al Politecnico di Milano che seguivo in ogni sua presenza pubblica, scrivendo sui giornali e giornalini che lui dirigeva. Fondammo persino una rivista che si chiamava Artecontro. Certo seguivo con avidità tutto ciò che riguardava il mondo dell’arte. Mi stavo laureando in architettura scrivendo una tesi teorica sulle arti figurative in cui lo stesso Mario mi faceva da relatore. Dal titolo della tesi, “Il primato della realtà”, puoi ben ricordare la passione e la scelta di campo in cui mi ritrovavo a militare. Perché allora fare arte, significava prendere posizione, aderire a una tendenza. Gli artisti e in particolare i pittori agivano nel contesto sociale con le loro immagini militanti, il loro era un impegno politico, tanto più efficace e potente, quanto più le loro immagini sapevano cogliere il senso della realtà. Certo che ricordo gli artisti che vennero presentati alla tua Galleria e di molti di loro ricordo le immagini forti e provocatorie, di denuncia sociale e di rivendicazione dei valori dell’uomo che la brutalità della storia umiliava nella dimenticanza di quegli ideali di libertà e di pace che apparivano essersi dispersi nell’euforia consumistica del dopoguerra e nel riproporsi angosciante di regressioni sociali. Ma c’erano tra gli artisti, e anche tra quelli della tua Galleria, alcuni che di fronte a tali problemi, davanti a quelle angosce sociali, civili e storiche che incombevano, si isolarono nel silenzio di un’arte intimistica e smaterializzata, lontana dalla violenza delle quotidiane notizie che giungevano da ogni parte del mondo; dalla Grecia, come dal Vietnam, dal Cile come dal Brasile, dalle lotte sindacali di Reggio Emilia come dall’emergere dei terrorismi eversivi di matrice neofascista. Nel mondo dell’arte, e la tua Galleria ne rivendicava una ruolo attivo, gli artisti cercavano di capire da che parte stare. Tendenze diverse, anche antagoniste che non riuscirono a dialogare in un’intesa comune, finirono per allontanarsi, per ignorare le reciproche istanze, per inseguire i fantasmi della cosiddetta neo-contemporaneità del post-modernismo, del neo-modernismo, della trans-avanguardia. Fu un tentativo di andare oltre, di superare il moderno, spesso fatto da chi moderno non era mai stato. Certo, se guardiamo con gli occhi di oggi, di quei momenti è rimasto ben poco, forse sono rimaste alcune opere, perlopiù dimenticate e ancora in atttesa di una revisione critica e di un riconoscimento storico. Altre, quelle che il mercato sembrava avere sospinto nella celebrazione, oggi soffrono anch’esse dell’isolamento culturale in cui sembra rinchiusa senza uscita l’arte italiana contemporanea.
Sarebbe bello, caro Ballarè, se cinquant’anni dopo vedessimo rinascere dalla memoria di allora l’ombra di un entusiasmo per ricominciare a parlare dell’arte e del mondo che in essa si rispecchia.
Attilio Pizzigoni
- 04.02. 2022
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